Appuntamento a Belleville

di Daniele Ravizza

Oggi il cinema d’animazione ha portato la propria espressività a un livello più alto del cinema fotografico, come testimoniano i sempre più diffusi riconoscimenti tributati e gli spazi concessi nei festival cinematografici. All’interno dell’egemonia monopolistica sul pubblico da parte delle case di animazione statunitensi (Disney-Pixar su tutte), spesso vengono dimenticati i film d’animazione indipendenti, che si rivolgono anche, se non soprattutto, ad un pubblico adulto, vittime del pregiudizio che il cinema d’animazione si trascina dalla sua nascita: “I cartoni sono per bambini”.
Un grande schiaffo ai sostenitori di questa errata prospettiva la fornisce Sylvain Chomet con il suo prodigioso, piccolo, colto e, allo stesso tempo, immediato Appuntamento a Belleville (Les Triplettes de Belleville), uscito nel 2003, lo stesso anno di Alla ricerca di Nemo, nei confronti del quale si pone in netta antitesi.
Il film narra di Champion, un ragazzo malinconico che non ha entusiasmo per nessuno dei regali donatigli dalla nonna, Mme Souza. Fino a quando questa gli regala un triciclo. Dopo alcuni anni, Champion disputa il Tour de France, ma viene rapito da dei sinistri individui, che lo portano con una nave a Belleville, città immaginaria degli Stati Uniti; perciò la nonna va alla ricerca del nipote con il fido cane Bruno e con l’aiuto di tre ex starlettes degli anni ’30 (che danno il nome al titolo originale).
Una voce fuori dal coro, qualcosa d’ALTRO, o, per usare un’immagine del film, un pedalò contro un’enorme crociera: la grandiosa piccolezza del primo lungometraggio dell’animatore e fumettista francese risiede soprattutto in due scelte originali e immediatamente percepibili: il ricorso ad un’animazione non computerizzata, a tratto unico, e la quasi totale assenza di parola dialogata.
La prima scelta si pone in netta contrapposizione con il cinema d’animazione computerizzato statunitense di oggi e paga invece tributo all’epoca d’oro del cinema disneyano degli anni ’30. Dai guanti originali di Mickey Mouse indossati dalle Triplettes nella sequenza in bianco e nero che apre il film, colma di numerosi riferimenti meta-cinematografici, si passa al tecnico della Mafia, personificazione di Topolino, che mantiene ben oliata una macchina emblematicamente messa in moto dai ciclisti rapiti per essere obbligati a pedalare incessantemente senza una meta. Questa stessa macchina, curiosamente, aziona un cinematografo, e ciò avvalorerebbe il parallelismo con la Disney: essa produce film a incasso assicurato, ma per lo più vicini ad un prodotto commerciale fabbricato in serie ed adatto alle famiglie. Rimanendo fedeli all’allegoria, i ciclisti rappresenterebbero i creatori di film obbligati a pedalare/ideare solo per far guadagnare il boss mafioso, ovvero le mayor.
D’altro canto la quasi totale assenza di parola-dialogo è un omaggio al filone storico del film comico, che riesce a trattare tematiche rilevanti attraverso la sottile ironia della sola forza delle immagini. Il tributo più eloquente, oltre a Charlie Chaplin e Buster Keaton, è alla filmografia di Jacques Tati, eloquentemente citato (Les Triplettes guardano alla tv un pezzo di Jour de fête ed è visibile la locandina de Les Vacances de Monsieur Hulot) dai mugugni dei personaggi e dall’attenzione ai rumori d’ambiente, oggi ancora spesso “considerati come l’ultima ruota del carro narrativo”, qui invece veri dominatori della colonna sonora. Egemonici insieme alle canzoni, originali e non, che ci immergono in un’atmosfera retrò, potenziata dal filtro d’epoca con il quale i disegni si materializzano davanti ai nostri occhi.
Come la bici nell’epoca della macchina, Appuntamento a Belleville rievoca i valori di un passato travolto dal mezzo per eccellenza dell’epoca industrializzata: il treno, vera e propria fobia nelle spassosissime sequenze oniriche del cane Bruno, ma che, tuttavia, può percorrere solo strade già esplorate, metafora dei percorsi computerizzati e automatici del mondo occidentale. La bicicletta, invece, riflette la spontaneità e l’immediatezza dell’animazione di Chomet, ricca di immagini generatrici di discorsi e diretta contro l’establishment americano, raffigurato dalla Statua della libertà sovrappeso e sfoderante un hamburger.
Rispetto al puro prodotto industriale a breve scadenza di consumo, il regista francese offre un autentico prodotto artistico che sa essere espressione di noi stessi: nobilmente semplice, indimenticabile ed eterno. Come la prima bici.

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